a cura di Michelangelo Grenci

Principio di sussidiarietà
Il terzo settore all’interno di Gruppi
Le attività del terzo settore sul territorio e la “voce” degli psicologi
L’Osservatorio al lavoro sul terzo settore
Una prospettiva gruppale

Si inaugura, con questa rubrica, una nuova area di interesse, che riguarda l’attività clinica nel terzo settore.

È piuttosto difficile racchiudere in un’unica definizione i movimenti storici, le forme giuridico-amministrative e le attività complesse in cui si è storicizzato e attualmente si articola il Terzo Settore; un’area relativamente giovane, ma caratterizzata da un tale dinamismo da richiedere continui aggiornamenti normativi (la recente normativa fiscale di riordino del settore, per esempio, è del 2017).

Per i nostri fini, sarà utile considerare il Terzo settore in relazione alla classica tripartizione socio-economica riguardante le diverse attività: quelle afferenti allo Stato e alla Pubblica Amministrazione (Primo Settore); quelle afferenti al Mercato e alla logica di impresa (Secondo settore, orientato al profitto) e le attività che rientrano nel no profit (Terzo settore).
L’esercizio di queste attività, realizzato da enti che non perseguono fini di lucro, è orientato da finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

Principio di sussidiarietà

Le attività del terzo settore si riconoscono nel principio di sussidiarietà (art. 118 Costituzione, c. 4), secondo il quale: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.”
Gli enti ricompresi nel terzo settore sono pertanto:

• le organizzazioni di volontariato
• le associazioni di promozione sociale
• gli enti filantropici
• le imprese sociali (cooperative sociali, società di mutuo soccorso, associazioni, fondazioni, ecc.).

Il terzo settore all’interno di Gruppi

Perché una rivista a carattere scientifico-culturale, caratterizzata da una specifica prospettiva analitico-gruppale, rivolge la propria attenzione al terzo settore?

Vorrei avvalermi dei pensieri di un autore importante della tradizione “gruppale”. Scrive J. Bleger (Bleger, 49):

“Voglio chiarire e sottolineare che, a mio giudizio, lo psicologo clinico, che abbia una preparazione sufficiente in tal senso, deve essere pienamente abilitato a svolgere un’attività psicoterapeutica, perchè, fra le altre ragioni – è attualmente il professionista meglio preparato, sotto l’aspetto tecnico e scientifico, per assolvere questo compito”.

Direi che la posizione auspicata da Bleger inerente “l’attività psicoterapeutica” è, nel nostro Paese, ampiamente riconosciuta a livello normativo e sufficientemente consolidata nelle pratica clinica.

Nello stesso testo, Bleger afferma:

“Ma al tempo stesso credo che si dovrà considerare la Facoltà di Psicologia un fallimento dal punto di vista sociale se gli psicologi si limiteranno, nella maggior parte dei casi, alla psicoterapia individuale”.

Credo che questo punto meriti attenzione e approfondimento.

L’interesse per una formazione complessa, che permetta di svolgere l’esercizio della clinica “fuori dallo studio e dentro le comunità” è uno specifico COIRAG. Un interesse per le dimensioni collettive dell’esistenza (gruppo, istituzione, comunità, polis) che è costitutivo dei paradigmi analitico-gruppali.
Uno specifico formativo che sappiamo derivare da una concezione strutturalmente relazionale (e quindi culturale e sociale) della mente; una concezione ampiamente condivisa nella nostra comunità scientifica, che qui è appena il caso di richiamare.

Sulla base di queste premesse, è possibile chiudere il cerchio.
Poiché il terzo settore, nelle diverse forme organizzative (prevalentemente cooperative sociali) si costituisce come soggetto fortemente coinvolto ed economicamente rilevante nelle attività di servizio a carattere sociale – attraverso la gestione di servizi: socio-educativi, socio-assistenziali e socio-sanitari nei diversi ambiti di intervento (minori, psichiatria, disabilità, anziani, tossicodipendenze, ecc.) – è evidente e pressoché ovvia la connessione:

clinica analitico-gruppale ⇔ dimensione sociale ⇔ terzo settore

Le attività del terzo settore sul territorio e la “voce” degli psicologi

Non disponiamo di dati e rilievi numerici specifici, tranne una ricerca a cura dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (Competenze psicologiche nel terzo settore, F. Angeli, 2005): i rilievi regionali indicavano all’epoca che 1030 laureati in psicologia, pari al 10% degli iscritti all’Ordine, trovavano impiego in organizzazioni del terzo settore. I profili di impiego erano i più vari – dalla formazione all’operatività alla ricerca – in abito socio-sanitario, assistenziale ed educativo. La ricerca evidenziava lo svolgimento di attività afferenti prevalentemente all’attività clinico-terapeutica, mentre era scarsamente diffusa la figura dello psicologo per quanto riguarda i ruoli dirigenziali.

È verosimile che, ad oggi, moltissimi colleghi svolgano (soprattutto ad inizio professione) importanti attività cliniche non inquadrabili nel setting terapeutico tradizionale, in servizi gestiti da enti del terzo settore; attività a valenza clinica non solo non riconosciute a livello contrattuale e per quanto riguarda l’inquadramento professionale (posizioni professionali del tutto improprie e determinate da esclusive logiche di mercato), ma che spesso non hanno voce e legittimità nemmeno nelle comunità professionali di appartenenza.

Questa sezione di Osservatorio intende dare voce a queste esperienze “al limite”, esperienze che esulano dai setting classici, e per questo meritano particolare studio e approfondimento.
Si tratta peraltro di dimensioni “mute” della pratica clinica nel terzo settore, realizzate in setting non tradizionali, almeno ventennali.
Ci porremo quindi in continuità con la tradizione culturale ed epistemologica che si è realizzata “fuori dallo studio”: sono infatti numerose e variegate le esperienze gruppali, comunitarie, sui territori in prospettiva analitico-gruppale. Mi limiterò a ricordare, al riguardo, un dato storico: le prime comunità in Italia sono state fondate, nei primi anni ’60, da Fabrizio e Diego Napolitani.

L’Osservatorio al lavoro sul terzo settore

Gli obiettivi del gruppo di lavoro sono articolati differenti livelli:

Appare prioritario tentare di mappare il fenomeno, anche in termini numerici: le esperienze cliniche nel terzo settore non sono verosimilmente esperienze isolate e marginali; per riconoscerne la portata è importante acquisire rilievi quantitativi. E’ in fase di progettazione un questionario finalizzato a rilevare l’impiego di psicologi clinici/psicoterapeuti in formazione in organizzazioni del terzo settore.
Sarebbe idealmente utile disporre di un rilievo statistico nazionale, a cura degli enti competenti, istituzioni che potrebbero essere opportunamente sensibilizzate al riguardo.

A parere dello scrivente, è importante rendersi consapevoli che un elemento caratterizzante la cultura organizzativa nel terzo settore è un ampio grado di indifferenziazione professionale. Esula dal presente scritto una trattazione, anche solo provvisoria e superficiale, circa l’aspecificità di ruoli, compiti e funzioni tipica delle organizzazioni no profit.
Un ambiente improntato al “generalismo” e alla conseguente scarsa distinzione professionale, espone indubbiamente l’attività clinica (come quella assistenziale, educativa, sociale) a forme di ambiguità e a problematica definizione.
Per questo motivo è difficoltoso rintracciare luoghi e modi in cui si realizza l’attività a valenza clinica, soprattutto in servizi ricompresi, talvolta impropriamente, nella generica definizione di “educativi”.

Una prospettiva gruppale

Dal punto di vista della prospettiva gruppale possiamo ipotizzare l’esplorazione di alcuni scenari:

Ad esempio, il dispositivo “gruppo” è in generale scarsamente valorizzato, anche in servizi che lavorano prioritariamente nella dimensione collettiva: servizi residenziali e semi-residenziali, cioè comunità, case famiglia, centri diurni, gruppi-appartamento, residenze assistenziali, ecc. Servizi in cui la dimensione gruppale è strutturale e costitutiva, ma scarsamente vista e pensata.

Un ambito che merita riflessione riguarda gli interventi caratteristici dei servizi domiciliari, che offrono importanti possibilità di esplorazione (e trasformazione?) del “sistema famiglia”: gruppo primario che rappresenta il contesto di lavoro – spesso altamente problematico – dell’operatore.

I servizi territoriali sono legati all’intervento nei contesti di vita delle persone: le comunità, i quartieri, le dimensioni aggregative. Un esempio di rilettura in ottica clinico-gruppale si trova in Fondamenti di Gruppoanalisi, nel capitolo dedicato al servizio di Educativa di strada.

Nonostante le specificità organizzative e culturali rappresentate dal terzo settore, scarseggiano le letture del fenomeno in termini di analisi istituzionale. Si tratta di organizzazioni che hanno spesso una forte marcatura valoriale, depositarie di portati storici e affettivi transgenerazionali (talvolta anche a livello familiare) che determinano stili di lavoro e modalità di cooptazione.

Le attività di supervisione e formazione si realizzano frequentemente in servizi gestiti da enti del terzo settore. Forse vale la pena condividere le esperienze – solitamente in assetto gruppale – che sono numericamente rilevanti e non frequentemente problematizzate in ambito scientifico-culturale. Anche in questo caso i dati non sono facilmente reperibili.

Non ultimo: nell’approccio analitico-gruppale viene dato ampio rilievo alla costruzione del progetto terapeutico, che necessariamente comporta l’interesse per i contesti di vita e le “ambientazioni” del soggetto (Pontalti). Risulta pertanto imprescindibile la conoscenza e la capacità di interlocuzione con enti e servizi (solitamente afferenti al terzo settore) che possano contribuire – per i casi che sappiamo non essere trattabili nella sola “stanza d’analisi” – alla realizzazione di progetti terapeutici complessi.

L’itinerario esplorativo del gruppo di lavoro si articolerà sulle coordinate, complesse, fin qui tracciate. Invitiamo quindi i colleghi a presentare contributi che possano dar voce e rendere riconoscibile la clinica “fuori dallo studio” realizzata nel terzo settore.

Bibliografia:
J. Bleger (2011), Psicoigiene e psicologia istituzionale, La Meridiana.